01 Nov L’ombra della luce: Tra Sankara e Heidegger – Emma Lavinia Bon
L’ombra della luce: Tra Sankara e Heidegger
«La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce /di sé non gliene cale, non chiede d’esser vista». Attorno a questi versi di Silesio, asciutti e penetranti come una lama affilata, Heidegger ha prodotto alcune delle sue meditazioni più suggestive: le parole del mistico tedesco evocano, d’altronde, un topos niente affatto nuovo al pensiero e che sembra mettere splendidamente d’accordo le tendenze mistiche d’Oriente e d’Occidente, trascinandone i rappresentanti in vertiginose meditazioni e costringendo spesso a rinunciare del tutto alla parola. Si tratta di quello che si potrebbe definire, rischiando un ossimoro, il «mistero dell’evidenza». Se l’Assoluto – o il Brahman, come lo chiamerebbero i mistici indiani – coincide con la totalità – è ekam evadvityam [primo senza un secondo], cita un’Upanisad – allora dev’essere di necessità anche assolutamente esposto, aperto: affermare il contrario significherebbe ammettere l’esistenza di un’altra sostanza, di un altro essere – e quindi di una dualità – tale da nasconderlo o da opporsi ad esso. Al contempo, pur essendo il massimamente manifesto, l’Assoluto non è immediatamente visibile: l’esercizio mistico e la pratica ascetica o meditativa coincidono con questo sforzo paradossale di vedere ciò che più di tutto è esposto allo sguardo, ciò che per definizione non può sottrarsi ad esso, l’evidenza abbagliante del Reale che abbiamo sempre sotto agli occhi e che proprio per questo acceca.
Il massimo della luce, scrive Hegel nella Scienza della logica, non è che il negativo della massima oscurità, e viceversa. La vita accade, tuttavia, nella mescolanza dei due, nel gioco di ombre che solo consente di vedere e distinguere le forme che popolano il reale e che sono visibili nella misura in cui mantengono una densità, oppongono una certa resistenza alla forza penetrante dello sguardo. Quest’ombra ha, per il filosofo indiano Sankara, la consistenza di un velo illusorio, di ciò che egli chiama Maya: vedere le «cose» significa non vedere Brahman, cioè non vedere veramente e quindi vivere una vita non pienamente realizzata, vissuta nella penombra dell’avidya o ignoranza. Allo stesso modo, Heidegger potrebbe affermare che vedere gli enti significa non vedere l’essere, condizione che implicherebbe un’esistenza inautentica, deiettiva.
Quello che può sembrare un accostamento felice tra due autori così lontani – temporalmente (Sankara è vissuto nell’ottavo secolo dopo Cristo), spazialmente, culturalmente – nasconde tuttavia una distanza altrettanto notevole all’altezza della loro intuizione filosofica di fondo. Se infatti per Sankara lo scarto tra Brahman e Maya è infine “soltanto” gnoseologico – è un difetto della conoscenza che ci impedisce di vedere l’Assoluto – per Heidegger la differenza è ontologica: è proprio in quanto è, che l’ente interroga il pensiero. In entrambi i casi, comunque, si tratta di togliere un velo, di diradare
un’ombra, di accogliere una luce in una radura; per Sankara questa radura abbagliante non ha confini: essa è il Brahman ed è l’Atman, è la medesima luce che pervade il cosmo e della quale ciascun uomo è circonfuso. La luce è senza ombre perché attraversa tutto e nulla le resiste, nessuna densità la scherma: l’ombra non è, se non nell’incapacità dell’uomo di vedere la luce. È restando attaccati al proprio sé personale, alle forme determinate del mondo, che questi assumono dei bordi e quindi “fanno ombra”. L’illuminazione non ha quindi tanto a che fare con un evento tale da produrre una lenta modificazione di uno stato precedente o con l’accensione estemporanea di qualcosa che è spento, bensì con la realizzazione dell’essere luminoso che già da sempre si è e che irraggia il cosmo intero, cioè l’Atman. Ecco perché, per Sankara, l’ombra – il velo, Maya – non può avere consistenza ontologica: non c’è che luce, un abbaglio cosmico nel quale i confini dei corpi e delle cose sono indistinguibili.
Così come non c’è dualità tra Atman e Brahman, anche il Mondo dei nomi e delle forme è inconcepibile al di fuori dell’Assoluto: se da un lato nessuna parola può dirlo o nessuna forma racchiuderlo entro i suoi bordi, dall’altro lato la verità di tutti i nomi e di tutte le forme è ancora una volta Brahman, l’assolutamente informe e senza-nome in cui tutte le limitazioni si aprono, i confini e le determinazioni si sfondano. Non c’è alcuna transitività, passaggio, legame tra l’Assoluto e il Mondo: il secondo non è che il brillare del primo, il suo incessante circonfondersi di luce propria. L’effetto, cioè, non è esterno alla causa, ma una sua qualificazione, una sua modificazione: se dal punto di vista del mondo si danno forme e determinazioni particolari, nomi, parole, dal punto di vista di Brahman tutte le determinazioni sono assorbite e dissolte. La filosofia di Sankara invita a illuminare il proprio sguardo, a diradare la nebbia che lo abita in modo da consentire una vista che, invece di discriminare forme, individuare margini, confini tra i corpi, li rende improvvisamente trasparenti. Vedere questa luce significa diventare luce a propria volta: illuminarsi.
Non c’è differenza tra Brahman e Maya, perché Maya semplicemente non è: si tratta di un nome che indica una condizione, non uno stato dell’essere. È la condizione di “illusione” – non psicologica, ma cosmica – nella quale vivono per lo più gli uomini, sempre divisi tra piacere e sofferenza. L’assoluto e il relativo, l’uno e i molti, Brahman e Maya non coesistono nella vertiginosa intuizione di Sankara: il punto di vista dell’uno evacua l’altro. Non c’è correlazione: i molti non sono un effetto dell’Uno, giacché quando si guarda dal punto di vista dell’Uno, i molti sono l’Uno. La luce non può causare l’ombra: quando lo sguardo è compenetrato dalla luce, quando chi guarda è luce, tutte le ombre diradano.
Se per il mistico indiano la verità – l’Assoluto, Brahman – brilla di una luce cosmica, onnipervasiva, nella quale ogni punto di vista e ogni singolarità si dissolvono e tutte le differenze sono ricomprese in quanto illusorie, da sempre integrate nell’Uno, per Heidegger la verità coincide
piuttosto con un nucleo luminoso che pulsa nel cuore dell’ombra e si raccoglie in una radura di luce, immagine che evoca il dinamismo di un gesto piuttosto che circoscrivere un luogo: il gesto di un disvelare che non è un illuminare, un accendere alcunché, ma un lasciar brillare di luce propria l’essere luminoso che abita l’ente. È questo il movimento che prende il nome di Gelassenheit. Abbandonare gli enti a se stessi significa aprirsi al loro mistero, scrutare cioè oltre il bordo delle cose – che si fa così sempre più diafano, trasparente – per cogliervi il mistero che le attraversa: farle brillare. Questa luce va custodita nella radura del pensiero: un pensiero meditante, rischiarato dalla medesima luce che disvela. È quando cerchiamo di possedere l’ente, di manipolarlo o di renderlo oggetto di un pensiero tecnico, calcolante, che esso diventa opaco, la sua scorza si inspessisce e la trasparenza dei suoi bordi si inquina così impedendogli di risplendere. Uomo ed essere sono implicati in questo gioco infinito di luci e ombre, aperture e chiusure, in una co-appartenenza costitutiva che impedisce di risolvere un polo nell’altro: non si dà essere senza un pensiero che lo lasci essere, che lo lasci brillare nella sua radura, così come non c’è veramente radura senza una luce che possa espandersi in essa. Indecidibile è l’oscillazione tra i due, governata dalla legge di un affidamento e di un bisogno reciproci e irriducibili a qualsiasi esigenza di fondazione metafisica.
Il passaggio, il transito, il differire tra essere ed ente è reale, ontologico, essenziale: non c’è un’unica grande luce che assorbe tutto, ma un gioco infinito di luci e ombre, di luci che coincidono con il diradarsi delle ombre: la luce, cioè, non fonda l’ombra, ma accade come dileguare di essa e pertanto esige che un’ombra si dilegui. Quello dell’apertura al mistero e dell’abbandono di fronte alle cose è un esercizio che va rinnovato in ogni gesto e che esige una postura, un modo di essere-nel-mondo che coinvolge l’esistenza nell’integralità della sua esperienza del reale. È a questa delicatezza che Heidegger invita: aver a che fare con l’ente come fosse una fragile rosa appena sbocciata che non domanda niente, se non di essere contemplata. La luce più intensa è esposta allo sguardo ovunque esso si posi, ma dilegua nell’ombra non appena si tenti di possederla piuttosto che di accoglierla, di darne ragione piuttosto che attenersi al suo accadere e votarsi al suo luminoso mistero.
Emma Lavinia Bon, Novembre 2021